Il progetto di Piacentini
Il progetto di Piacentini
Nel 1931, dopo vari tentativi necessari a risolvere la necessità di creare una nuova sede per esercitare la giustizia a Milano, l’incarico di erigere l’opera venne affidato direttamente dal podestà a Marcello Piacentini, architetto di rilievo in quegli anni e vicino al regime. Sebbene negli anni precedenti fossero state considerate come adatte diverse zone della città, ad esempio l’area della Zecca e quella del Macello, la scelta definitiva ricadde sull’area liberata dalla caserma allora in dismissione situata in Corso di Porta Vittoria, vista la sua posizione centrale e la prossimità con l’ex Palazzo di Giustizia. Le demolizioni si estesero anche ad altre proprietà, a cui si aggiunse la modifica della viabilità per poter consentire l’insediamento di una enorme macchina produttiva.
L’area destinata al nuovo Palazzo fu infatti di quasi 40’000 metri quadri, mole enorme soprattutto se valutata in rapporto alla sua collocazione baricentrica e alla densità del contesto. Per rispondere a tutte le esigenze prefigurate in maniera adeguata fu nominata una commissione composta da magistrati e avvocati, presieduta dal primo presidente della Corte d’Appello, con il compito di supportare l’architetto fornendo indicazioni pratiche sulle esigenze funzionali.
Il risultato fu un grandioso edificio a pianta trapezoidale con otto cortili interni, un’alta torre destinata all’archivio notarile e l’accesso su tutti e quattro i fronti stradali; quasi un’isola autonoma posta nel tessuto urbano del centro di Milano.
La suddivisione interna degli spazi fu determinata da molteplici fattori: si trattava di un edificio pubblico che sarebbe stato frequentato da diverse categorie di utenti (avvocati, giudici, detenuti, forze dell’ordine, pubblico), e pertanto sarebbe stato necessario favorire alcuni incontri e scoraggiarne altri. L’edificio inoltre, pur riunendo le sedi di tutti i gradi allora sparse nella città, doveva preservare l’autonomia di ciascuno.
La soluzione studiata da Piacentini fu quella di suddividere gli spazi come rappresentato nello schema seguente, mantenendone l’indipendenza funzionale anche attraverso accessi riservati, ma collegandoli internamente tramite lunghi corridoi che attraversano il palazzo in tutta la sua lunghezza e che intercettano i vasti atrii dai quali si accede alle aule di udienza. Lungo tutto il perimetro sono disposti i vari uffici che si affacciano sulle quattro strade limitrofe, mentre, per ragioni di sicurezza, le aule sono disposte in maniera da avere l’affaccio sui cortili interni e la vista protetta grazie ai vetri opachi.
La suddivisione pubblico/privato non è stata affidata unicamente al disegno in pianta, ma avviene anche nello sviluppo in verticale dei piani. Quelli liberamente accessibili al pubblico sono infatti soltanto tre: il piano terra con ingresso diretto da via Manara, via Freguglia e via San Barnaba, il piano rialzato a cui si accede da Corso di Porta Vittoria e destinato ai processi penali e il primo piano nobile destinato a quelli civili. Esistono però altri tre piani: il seminterrato destinato a locali tecnici, e altri due ammezzati in uso a chi lavora all’interno ed intervallati a quelli pubblici.
Uffici e aule d’udienza non sono gli unici ambienti presenti, oltre alla torre degli archivi e la grande quantità di locali tecnici furono previsti altri servizi all’interno come la biblioteca, le sale di lettura, l’ufficio stampa e gli spazi per i corpi di guardia.
Durante gli anni della costruzione alcuni criticarono la grandezza dell’edificio ritenendola eccessiva per i bisogni a cui doveva rispondere, l’obiettivo però era quello di realizzare un Palazzo capace di durare a lungo e per molte generazioni, che fosse in grado di rispondere anche ad esigenze future. In realtà non trascorse molto tempo prima che gli spazi risultassero sottodimensionati rispetto alle nuove esigenze. Per questa ragione negli anni Ottanta del secolo scorso vennero costruiti tre piani in più su buona parte della superficie, visibili soltanto dall’accesso di via San Barnaba.
Piacentini perseguiva con fermezza il raggiungimento dell’unità delle arti nei suoi progetti, la sua visione, condivisa da molti, vedeva l’architettura come la maggiore e sotto la cui guida tutte le arti avrebbe dovuto sottostare seguendo un unico grande disegno. Soprattutto in questo progetto, che egli stesso definì il suo capolavoro, ad esclusione delle strutture che vennero curate dal suo collaboratore Ernesto Rapisardi, ogni elemento dal più grande al più piccolo venne studiato nel dettaglio: la distribuzione degli spazi, le finiture ottenute dalle cromie di marmi tutti italiani, i tipi di serramenti a seconda dell’ambiente, l’arredo delle aule e degli uffici affidati agli artigiani persino la scelta delle lampade dell’azienda Fontana Arte che nasceva in quegli anni. La sua determinazione nel seguire il progetto in tutte le sue parti (e con grande abbondanza di mezzi) restituisce un’architettura che esprime un senso compiuto proprio nella sua totalità rappresentata in particolar modo dall’armonia dell’architettura stessa con le opere pittoriche e scultoree da lui commissionate ai maggiori artisti del tempo e senza le quali la sua forza espressiva non sarebbe quella che possiamo ammirare oggi.