La decorazione murale negli anni Trenta
La decorazione murale negli anni Trenta
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento il mondo dell’arte aveva assistito ad una grande rivoluzione, con l’avvento di nuove sperimentazioni artistiche figure e forme erano mutate lasciandosi alle spalle il classicismo insegnato nelle accademie. Anche l’architettura subì un cambiamento che lentamente impose l’abbandono di ridondanti forme di decorazione.
Tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta in Italia, così come in tutta Europa, si assistette invece ad un ritorno alla figura anche dalle forme classiche. Non si trattò semplicemente di una reazione alle avanguardie artistiche o di un cambio generazionale, in molti casi i protagonisti di questo “ritorno” furono gli stessi protagonisti di alcune avanguardie di inizio ‘900. Si trattava piuttosto di un “nuovo classicismo” che tornava alle origini ma rivisitandole. Un esempio su tutti Picasso, padre del cubismo, dipingerà in una altra fase figure statuarie dai tratti classicheggianti.
Svariati furono i fattori che portarono a questo cambiamento e decisiva fu la Prima Guerra Mondiale. Le drammatiche conseguenze che sconvolsero l’Europa frenarono nuove entusiaste sperimentazioni, alimentando l’impulso degli artisti ad esprimere quello che era lo spirito del tempo: un desiderio di concretezza, solidità e durevolezza che si realizzò con il ritorno alle origini, al classicismo ma con un sentimento molto diverso.
In Italia furono gli anni del regime fascista, e sebbene non venne mai espressa univocamente l’idea di un’arte di Stato, si favorirono correnti artistiche capaci di esprimersi in modo facilmente comprensibile anche al fine di assicurarsi maggiore consenso, un’arte “in grado di parlare alle masse”, dai tratti monumentalistici e in cui il richiamo al glorioso passato della nazione si prestava a scopi propagandistici.
È anche da leggere in questo contesto la nascita del gruppo di artisti del “Novecento italiano” mosso, più che da uno stile comune degli artisti, dalla volontà condivisa di rivisitare il linguaggio classico in chiave moderna. La figura di Mario Sironi fu sicuramente decisiva, nel 1933 teorizzò con Funi, Campigli e Carrà il ritorno alla pittura murale. Il “Manifesto della pittura murale” esprimeva la volontà di abbandonare la pittura da cavalletto in quanto questi artisti sostenevano che l’arte ha e deve avere uno scopo sociale, deve parlare alle masse e affermavano che questo potesse essere fatto soprattutto attraverso raffigurazioni in architetture pubbliche.
La teorizzazione di Sironi si inserisce in un dibattito più ampio che supera la sola sfera politica, pur così importante per il regime in Italia. Altri movimenti europei, nello stesso arco temporale, ricercavano un nuovo rapporto tra arti decorative e architettura con l’intenzione di riunificare tutte le arti.
È in questo contesto che nascono in Italia opere pubbliche in cui la “fusione” tra forme espressive, simboli e architettura è fondamentale fin dalla fase di progetto e il Palazzo di Giustizia milanese ne è un grande esempio.
Il regime fascista raccoglie in questo contesto i desideri di tutti questi artisti, che ambiscono ad un ritorno alla decorazione murale per realizzare un’arte sociale, servendosene però anche per i propri scopi propagandistici. Ciò viene attuato entro un vasto programma di realizzazioni, che non solo diventano mezzo di propaganda, ma distolgono l’attenzione dagli atti di repressione verso forme d’arte meno “funzionali”.
A titolo di esempio di quanto accadeva in quegli anni in merio all’arte “pubblica” va ricordata la “legge del 2%”, approvata nel 1942, che imponeva che almeno il 2% del costo complessivo dovesse essere destinato alle opere decorative nei nuovi edifici pubblici. La legge fu però approvata quando l’esperienza italiana della pittura murale era ormai giunta al termine, e che si concluse per due ragioni principali: i problemi legati alla scorretta esecuzione delle tecniche più antiche (ad esempio affresco ed encausto) e lo scoppio della Seconda guerra mondiale.
Molte realizzazioni manifestarono infatti fin da subito evidenti problemi legati ad una scarsa conoscenza delle tecniche pittoriche su muro o all’uso di prodotti sperimentali che in breve tempo si degradavano. Ma la battuta d’arresto finale la segnò la Seconda guerra mondiale dalla quale l’Italia uscì devastata e quindi impossibilitata ad occuparsi del legame tra le arti. Le conseguenze della guerra tuttavia furono decisive anche sul piano politico, segnando negativamente la carriera e l’opera di chi – come Sironi – veniva considerato portatore dei valori fascisti che l’Italia di quegli anni non poteva che rifiutare.