Le opere criticate, censurate o distrutte
Le opere criticate, censurate o distrutte
Critiche e polemiche accompagnarono il progetto fin dalla sua nascita giungendo da più fronti sia della scena pubblica che politica. I primi commenti negativi furono espressi da alcuni artisti, in particolar modo da quelli lombardi che speravano in un coinvolgimento maggiore in un progetto di tale rilevanza per la città di Milano. Aspettativa che venne infranta da Piacentini che invece preferì autori di diversa provenienza regionale, realizzando un campione per lui rappresentativo della situazione artistica italiana di quegli anni, tra i cui nomi spiccavano grandi maestri con i quali aveva già avuto modo di lavorare. Come Sironi con il quale collaborò innumerevoli volte e al quale commissionò altre opere come il grande affresco per l’Aula Magna della Sapienza, o come quelli nella Casa Madre dei Mutilati di Roma dove oltre Sironi egli chiama altri artisti come Santagata, Drei, Prini, Romanelli e Selva o ancora nel Palazzo delle Corporazioni dove oltre Sironi, Ferrazzi e Prini compare Rosso; queste sono solo alcune delle collaborazioni che ritroviamo nel Palazzo di Giustizia di Milano. Ma anche da parte di alcuni degli artisti coinvolti nel grande progetto milanese criticarono i rigidi metodi di controllo e di imposizione dei temi e delle tecniche da utilizzare da parte di Piacentini
“…come fu al Palazzo di Giustizia di Milano, all’Università di Roma ecc., si danno a fare affreschi a chi non ha mai fatto l’affresco; mosaici, a chi potrebbe fare l’affresco e non sa fare i mosaici, senza alcun criterio relativo al mestiere o al livello artistico” scrive Gino Severini.
Le parole più dure arrivarono però dalle alte cariche del tribunale. L’allora primo presidente della Corte d’Appello, Tito Preda, a seguito di un sopralluogo per il collaudo delle opere ancora non tutte terminate, scrisse una lettera datata 22 luglio 1939 al Podestà di Milano elencando minuziosamente i problemi da lui riscontrati. Da quel momento iniziò una forte disputa tra Piacentini e Preda che avrà come esito quello di screditare l’opera nel suo complesso e, complice lo scoppio della guerra, di impedirne l’inaugurazione ufficiale.
Una delle contestazioni riguardava la dimensione delle opere, secondo Preda eccessive e “invasive” della parete di fondo da non lasciare adeguato spazio per l’affissione del crocifisso e dei ritratti di Sua Maestà il Re e del Duce. Polemica pretestuosa e di natura politica, i disegni pubblicati da Piacentini ci mostrano il crocifisso sulla porta di ingresso e il previsto spazio laterale alle opere per i ritratti, così come in altri Palazzi di Giustizia.
Alcune opere – specificatamente elencate – vennero poi contestate per la presenza di nudi e altre per soggetti giudaici. Tra queste ultime vi sono “Daniele nella fossa dei leoni” di Ferrazzi, “Mosè che provoca le fiamme del cielo sui simulacri pagani”, di Funi, “Mosè con le tavole della legge” di Penagini e “Il giudizio di Salomone” di Cadorin.
È evidente il legame con la promulgazione delle leggi razziali del 1938, che consente al Presidente Preda di dichiarare che i soggetti biblici dell’antico testamento non possano essere accettati in quanto connessi alla storia del popolo ebraico. Pronte fu la risposta di Piacentini il quale, ricordando il gran numero di grandiose opere d’arte italiane raffiguranti episodi biblici, specifica che le nuove leggi non menzionavano alcuna eliminazione dell’iconografia relativa all’antico testamento.
Figure nude compaiono invece ne “Il Giudizio universale” e “Giustiniano” di Carrà, nel “Non uccidere” di Campigli, nel “Cristo tra il legislatore e l’esecutore della legge” di Semeghini e ancora una volta in quelle di Penagini e Cadorin. Esse sono giudicate sconvenienti, ed anche in questo caso, la difesa dell’architetto viene argomentata ricordando la presenza di simili nudi persino in San Pietro, “soggetti che se trattati da artisti con così alto senso estetico non risultano sconvenienti”.
Le argomentazioni di Piacentini non riuscirono però ad evitare la decisione di coprire le otto pitture murali con un telo grigio per alcuni anni. A poco servì anche l’intervento del ministro dell’istruzione Bottai che, sostenendo le ragioni artistiche dell’operato criticò l’intervento censorio motivato da una mancata competenza artistica. I tentativi di scoprire le opere risultarono vani fino al 1942 quando, per intervento diretto di Mussolini le opere vennero finalmente scoperte.
Le conseguenze dell’intervento del presidente Preda ebbero effetto non soltanto temporaneamente sui casi citati, ma sulla concezione generale del progetto. Preda riuscì infatti a vietare la realizzazione delle opere destinate alla Pretura Civile in quanto “puerili e ridicole. Al contrario commissionò tre opere, estranee al progetto di Piacentini, a Giannino Lambertini che vennero distrutte nel secondo dopoguerra.
Un’ultima rimostranza da Preda riguardava l’opera di Primo Conti, erroneamente interpretata come “Giudizio universale”, in cui vedeva la figura di Mussolini fra i giudicabili, mentre l’opera, intitolata “La giustizia tra cielo e terra”, raffigurava in realtà il Duce quale interprete del giudizio divino sulla terra. Piacentini riuscì in questo modo a tutelare l’opera che però fu invece criticata nel dopoguerra e ricoperta parzialmente così da non rendere visibile la figura di Mussolini.
Durante il secondo dopoguerra l’Italia reagì alla caduta del regime fascista avviando un processo di epurazione che cercò di sanzionare, punire ed allontanare i sostenitori del fascismo, coloro che avevano rivestito importanti cariche e chi aveva partecipato in qualche modo attivamente alla vita politica. Questo atteggiamento si estese anche all’eliminazione di tutti i simboli del regime e alle più identificative opere degli anni precedenti.
Anche nel caso del Palazzo di Giustizia si ordinò la rimozione di tutta l’iconografia esplicita ed in alcuni casi anche la demolizione di alcune opere. Oltre le tre opere di Lambertini commissionate dal primo presidente della Corte d’Appello, vennero completamente demoliti il mosaico di Santagata raffigurante Mussolini e il bassorilievo di Lodi “La fondazione dei fasci”. In generale si eliminarono gran parte dei fasci littori, per quanto non sia chiaro quali fossero i criteri di selezione dato che in alcune opere, come quella di Bortolotti e Maraini, tutt’oggi ancora presenti.
Grande sfregio patì certamente l’opera di Primo Conti che, superate le accuse di Preda, non venne risparmiata nel dopoguerra. Così la figura di Benito Mussolini in primo piano venne occultata da una grande “rappezzo” di colore arancio poi rimossa nel 2008.